Beirut, giorni nostri. A un comizio del Partito Cristiano vediamo il meccanico Toni (attore Adel Karam) tutto infervorato dal discorso della sua parte politica, il quale poi torna, fiero delle sue adenoidi (come avrebbe commentato la Gialappa), dalla giovane moglie incinta, a casa, dove campeggiano gigantografie del capo della formazione politica di riferimento. Poi vediamo Yasser (attore Kamel El Basha), ingegnere civile palestinese che, profugo, lavora da anni come capo cantiere per un imprenditore edile. Durante un sopralluogo nel quartiere di Toni, un getto d’acqua investe in pieno l’ingegnere, provenendo proprio dallo scarico abusivo del balcone del garagista. Quest’ultimo non gradisce né la richiesta di chiarimento, né la offerta di riparazione di questo piccolo guasto da parte dell’ingegnere il quale comunque la fa eseguire ugualmente dal suo team di operai, e in pochi minuti lo scarico é riparato e a norma. Ma Toni non gradisce la presenza nel suo quartiere, figuriamoci il lavoro fatto da un palestinese che per (sua) definizione e’ sempre un nemico, e immediatamente distrugge il lavoro appena completato, con un gesto che suona come una dichiarazione di guerra. La reazione del palestinese non si lascia attendere: “Brutto stronzo”, dice al futuro padre e questo è il primo degli insulti a cui fa riferimento il titolo del film, innesco di una reazione a catena che deflagra tra le due fazioni etnico/politiche, retaggio di decenni di guerre e rivalità. Praticamente, per una questione di grondaie, un militante cristiano e un palestinese capocantiere cominciano ad insultarsi, questione privata, sembra, inizialmente. Il tutto si aggrava quando il tentativo di conciliazione civile tra i due fallisce: “Ariel Sharon avrebbe dovuto sterminarvi tutti” arriva a dire Toni, e la reazione dell’ingegnere si fa fisica, causando due costole rotte al meccanico, e poi un parto prematuro della sua signora, come conseguenza della situazione; e un processo che, da faccenda di quartiere tra due tizi, diventa affare di stato, con le televisioni e tutti i media che seguono avidamente la vicenda che in tribunale diventa una specie di episodio di “Perry Mason”, con il colpo di scena ulteriore che (Carramba, che sorpresa!) la avvocato donna che difende l’ingegnere é la figlia dell’avvocato, principe del foro di Beirut, che difende il meccanico.
Un film bello, in cui il regista Ziad Doueiri ricorre a volte anche al flashback storico per spiegare meglio come e perché in Libano si é arrivati a questa situazione di non pacificazione civile, anche a qualche decennio di distanza dai fatti che insanguinarono questa terra negli anni ’70 e ’80, devastando Beirut. Nel seguire il dipanarsi della storia narrata nel film, vediamo che oggi Beirut è città cosmopolita e non povera, una metropoli che in realtà fatica a cambiare pelle, come del resto tutto il Libano; è stata riedificata al centro, con un’architettura di tipo occidentale, mentre la periferia rimane “difficile” (eufemismo), nella vita quotidiana della popolazione civile, nella distribuzione etnica dei quartieri, nell’equilibrio delicatissimo di una convivenza sempre complicata, nella gestione della questione palestinese. In questo contesto si muovono i partiti politici che, con determinati atteggiamenti da “o di qua, o di la’ “, cavalcano l’onda populista e alimentano quel clima gia’ menzionato di mancata pacificazione.