Categoria: Recensione

Recensione “The Tale” (da Taormina Film Fest 2018)

“The Tale” è un film del 2018 scritto e diretto da Jennifer Fox e basato sulla sua stessa vita, indelebilmente segnata da un caso di ripetuto abuso sessuale in giovanissima età. L’attrice protagonista è Laura Dern. Dopo la presentazione al Sundance Film Festival, adesso il film è passato fuori concorso in quesa edizione di “rinascita” del festival di Taormina.

La storia narra della vita della regista e documentarista Jennifer (interpretata da Laura Dern), la quale conduce un’esistenza apparentemente serena insieme al suo compagno. La sua routine viene scombussolata dal ritrovamento da parte della madre di un diario scritto da Jennifer a 13 anni, in cui viene raccontata, nei modi ingenui di una bambina di 13 anni, un’inquietante storia fra l’allora ragazzina e i suoi due allenatori di equitazione, Mrs. G e Bill, entrambi adulti. Rileggendo le parole da lei stessa scritte, Jennifer capisce che la verità è ben diversa da come ricordava, o da come si era augurata di potere ricordare, per cui si sforza di focalizzare di nuovo tutto, specialmente i dettagli, e comincia un lavoro di analisi interiore e di ricerca dei responsabili per portare alla luce quanto da lei subito.

Con “The Tale”, Jennifer Fox mette in scena una dolorosa parte della sua stessa vita, trascinando lo spettatore verso un lacerante caso di abuso fisico ed emotivo, operando la scelta di mettere in secondo piano la spettacolarizzazione di una vera e propria tragedia umana per privilegiare un approccio più intimo e psicologico, nell’intento di fare percepire allo spettatore ciò che lei stessa ha provato e vissuto. La regista ha dichiarato di avere pienamente compreso quanto le era accaduto solo dopo i 40 anni. Il film ripercorre così i passi della stessa regista, mostrando con realismo quanto avviene in una mente sconvolta da un orrore troppo forte non soltanto per essere rivelato, ma anche per essere accettato.

La prima parte di “The Tale” è la più interessante. Avanti e indietro tra un presente fatto di rievocazioni, racconti e foto, e un passato che ritorna fuori piano piano, il film mostra diverse ricostruzioni, alcune ingannevoli, altre che si rivelano false e poi quella vera, per mostrare come il tempo avesse modificato i ricordi della protagonista e come a fatica questa stia comprendendo ed elaborando per la prima volta quegli eventi.

Laura Dern è molto brava nel rendere quello che è prima di tutto un percorso interiore di presa di coscienza dei fatti, dando vita a una performance di grande misura ed equilibrio, fino ad una reazione umanamente più emotiva nel finale. Un’interpretazione di grande intensità e sostanza, che conferma il talento e il carisma di questa attrice.

Elizabeth Debicki e Jason Ritter, gli attori che interpretano la versione giovane dei due aguzzini di Jennifer, sono per buona parte del film visti come orchi “quasi buoni”, nel senso che le immagini evitano di rendere troppo palesi i loro abusi e i tentativi di abusi, ma ovviamente nei loro caratteri e modi di intrappolare la ragazzina, traspare il loro essere subdolo, e molto peggio. Ma forse i due mostri non sembrano nemmeno troppo tali anche a causa della naturale autoindulgenza che Jennifer Fox, la regista che è anche la protagonista della narrazione, mostra verso se stessa nel raccontare la propria storia. Determinata a raccontare con lo scopo di fare i conti con il passato, la regista è senza dubbio una vittima ma indugia tantissimo in questo, per quanto la sua sia una posizione rispettabilissima. In altre parole, forse il film tende a parzialmente coprire la figura dei due loschi per assicurarsi che la attenzione sia tutta sulla vittima.

Invece gli esperti attori Frances Conroy e John Heard, che interpretano gli stessi due personaggi ma nella fase della loro vecchiaia, quando Jennifer adulta praticamente è ormai sulle loro tracce, rendono bene l’immagine di due persone  (“ex orchi”) ormai invecchiati ma consapevoli del dolore da loro provocato nel passato.

In conclusione, “The Tale” si rivela un dramma biografico coraggioso, di acuta introspezione psicologica e di grande impatto emotivo sul pubblico.  Un film un po’ duro, che ricorda i soprusi che quotidianamente avvengono anche nei luoghi e nelle situazioni apparentemente più sicuri. E che spinge lo spettatore a scavare nel proprio passato per superare anche le  esperienze più dolorose.

 

Recensione “Dogman”

Anzitutto onore e grandi elogi all’attore reggino Marcello Fonte che alla sua prima interpretazione di un personaggio principale, ha vinto il premio come miglior attore al recentissimo festival di Cannes.

Il film è un noir liberamente ispirato ad un atroce fatto di cronaca romana di fine anni ’80; il regista Matteo Garrone racconta la storia del “canaro”, proprietario di un negozio di toletta per cani nel rione della Magliana. Marcello, questo il nome del canaro, per anni viene vessato da un molto presunto amicone, Simone (attore Edoardo Pesce), un gigantesco energumeno con il cervello inversamente proporzionale ai muscoli, fino a che tutta la rabbia accumulata negli anni non esplode nella brutale vendetta.

Prima di arrivare alla tragedia finale, vediamo Marcello, uomo piccolo e mite, che vive nella periferia della città; divide le sue giornate tra il modestissimo lavoro, l’amore assoluto per la figlia, un pacifico rapporto con i suoi vicini del quartiere da cui si fa benvolere, e un amore grande per i cani con i quali lavora, dal chihuahua al pitbull, ma soprattutto con il suo, di cane, con il quale a casa divide pure la pasta dallo stesso piatto, nel senso che proprio attinge con la forchetta alternandosi sull’unico piatto con il muso della bestiola. Una scena schifosa. Ma per arrotondare Marcello spaccia cocaina; questo fatto lo porta ad instaurare una torbida amicizia con Simone, il delinquente locale di cui abbiamo detto, il quale con piccoli crimini e atti di violenza terrorizza gli abitanti del posto, senza che nessuno abbia il coraggio di intervenire. Marcello gli procura la droga, lo aiuta in alcune rapine e subisce passivamente i suoi soprusi, accontentandosi della (quasi) nulla percentuale che Simone gli garantisce.

Un giorno Simone esagera con un furto, Marcello viene ovviamente incastrato e si fa un anno di carcere pur di non tradire l’amico facendo il suo nome alla Polizia. Quando Marcello esce di prigione, Simone, come era facilmente prevedibile, non gli riconosce la sua parte ed allora si scatena l’abisso di vendetta nella mente del personaggio protagonista. Con un escamotage, riesce ad attirare Simone nel suo negozio e a chiuderlo in una gabbia per cani, e qui comincia l’atroce vendetta. Marcello non voleva che la cosa degenerasse, gli bastavano solamente le scuse di Simone, ma quando questi riesce quasi a liberarsi dalla gabbia, ecco che, soprattutto per paura, Marcello non può che andare oltre con la violenza fino ad uccidere il suo aguzzino quasi torturandolo, legato ad una catena per i cani.

Il regista ha girato il film al Villaggio Coppola, frazione di Castel Volturno, ma riproducendo lo stesso ambiente romano della storia vera, quindi un quartiere periferico, quasi un non-luogo, dove le persone cercano di sopravvivere. Palazzi cadenti, strade sterrate luride, muri scrostati, pozzanghere, luci al neon fioche e tremolanti che brillano (si fa per dire) ad illuminare insegne di locali lerci. Praticamente una discarica con le persone dentro. “Dogman” è un racconto di morte che ha per protagonista il male, alimentato dal degrado nel quale si viveva in certe (molte) periferie italiane, all’epoca della storia, e oggi è forse ancora peggio. Il film poggia molto sulla straordinaria interpretazione del neoattore Marcello Fonte che interpreta il brutto, fragile, miserabile eppure dolce protagonista, confinato negli abissi della periferia con l’unica consolazione dell’amore per la figlia e per i cani.

Matteo Garrone bravo come in “Reality” e “Gomorra” nell’affermarsi come notevole autore in un ambito che possiamo definire ancora neo-realista, con personaggi che vivono ai margini, periferia culturale, materiale e spirituale. Impeccabile la sua direzione degli attori. Un bel film italiano per il quale abbiamo fatto il tifo a Cannes e che in effetti poteva arrivare fino all’eldorado della Palma d’oro.

 

Recensione “La prima meta”

La Giallo Dozza è la squadra di rugby del carcere di Bologna.
Max il loro allenatore, un vero allenatore di rugby,  oltre che un laureato in psicologia. Il che farà la differenza.

“La prima meta “, docufilm di Enza Negroni del 2016 narra senza retorica e sbavature sentimentalistiche, la nascita di una squadra di rugby che milita in categoria regionale C3, senza mai giocare fuori casa.
La determinazione dell’allenatore, quello della della direttrice del carcere che affianca il progetto, del responsabile della sicurezza, ma soprattutto dei giocatori, che cercano e trovano una motivazione che li proietti fuori dalla monotonia della vita carceraria, ma che li aiuti  anche  nella scoperta di una nuova solidarietà, fare squadra, riescono nell’intento.

Ci sono le difficoltà, le delusioni, la testardaggine dell’allenatore che non fa niente per illuderli, ma vuole il risultato. Che non è il punteggio sul campo, ma la nascita di una solidarietà fra i singoli e la compattezza della squadra. Ci si allena e si gioca con tutte le condizioni meteo, e si sa che Bologna non è una città calda d’inverno.

E a poco a poco, le mura  claustrofobiche che  precludevano la vista del cielo e soffocavano anche lo spettatore come i giocatori, sembrano aprirsi allo spettacolo sportivo quando agli allenamenti seguono le partite vere, con il pubblico di sorveglianti, ma anche di familiari e ospiti esterni, sugli spalti.
La squadra nasce, attraverso attese, delusioni, fatica, difficoltà, ma tanta voglia di farcela.
Per abbattere, almeno per quelle poche ore della partita, l’ostacolo che separa da una libertà, e che per alcuni porta il sigillo terribile del ‘fine pena mai’.

Max, Massimiliano  Zancuoghi , ora allenatore della squadra di Rugby dell’Alghero, lavora sul doppio binario dell’atletismo e della psicologia, col cesello del sentimento e con lo sprone di un metaforico pugno di ferro; li affronta a brutto muso, e li incoraggia fraternamente.

L’80% dei carcerati che hanno partecipato ad attività sportive, teatrali, creative o lavorative in carcere non hanno avuto una recidiva. E questo qualcosa significa.

Le riprese, durate quasi due anni, effettuate per evidenti necessità con una troupe ristretta al massimo di sole tre persone, seguono da vicino  le vicende sia della vita sportiva, sia di quella carceraria, con i momenti di tristezza, le lettere dei familiari, la preghiera (il 60% dei detenuti del Dozza sono stranieri e per lo più arabi, albanesi, rumeni, serbi), lo studio del Corano, la solitudine delle notti insonni.

Le partite, alla fine, rappresentano una liberazione, un momento atteso e stimolante che aiuta a sopportare la reclusione e fa sperare in un domani, per chi potrà, segnato da un destino finalmente migliore.

[Recensito dalla collaboratrice Manuela].

 

Recensione “Loro 2”

 

Vedere “Loro 1”.

Questo è soltanto il secondo tempo del film di Sorrentino. Non è molto diverso dal primo, qui ci sono piu’ scen(at)e dal matrimonio con Veronica che momenti pseudo glamour con le sgallettate del primo. Tristezza, ma anche momenti di humour a volte involontario.

Scena cult:

Silvione a Veronica :” Amore, di cosa state parlando con la tua amica?”.

Veronica: “Filosofia orientale. Vuoi unirti a noi?”

Silvione: “No, grazie. Devo andare a disporre alcuni bonifici”

 

Recensione “Loro 1”

Il premio Oscar Paolo Sorrentino si cimenta questa volta con una diversa “Grande Bellezza”, quella molto presunta del cerchio magico di Silvio Berlusconi, nel suo periodo d’oro (?), di premier e opposizione in Parlamento (alternati), escort e bunga bunga, Milan e Mediaset, palazzi romani e Sardegna; quindi seconda metà degli anni ‘00 di questo secolo. “Loro” sono quelli che cercavano di entrare nel suddetto cerchio magico attraverso il potere del sesso, con contorno di droga, esibito con massima volgarità.

Grande come sempre Toni Servillo, qui nella parte del Berlusca (e anche in quella di Ennio Doris, come vedremo nella seconda parte).

“Loro 1” di Paolo Sorrentino è una simbolica rappresentazione della disperazione del nostro tempo. Il film racconta i vizi e le virtù della società contemporanea in una luccicante cornice pagana, dove una cerchia di anime dannate cerca disperatamente l’illuminazione ma resta inchiodata in un inferno dantesco in piena regola dove i vizi la fanno da padrone. In una società così cinica e disperata non c’è spazio per le anime candide. Quando la posta in giuoco diventa alta, ognuno (di Loro) è disposto a passare oltre qualsiasi asticella morale. Una società dominata dall’interesse, dove ogni uomo ha un prezzo. Il regista fa vedere questo agitarsi perenne di persone in cerca di gloria, soldi, potere, che cercano di mungere lui, il Berlusca, vera figura cardine del film che avrebbe potuto anche avere come titolo “Lui 1 e 2”.

Scena simbolo all’inizo, con una pecorella che resta stecchita anzichè smarrita.

Nel film si riconoscono anche Mike Bongiorno (attore Ugo Pagliai), Noemi Letizia (quella del “papi”) mentre poi, per i vari personaggi con nomi di fantasia, si può scatenare tra gli spettatori il giuoco del “Who is who”, di abbastanza facile soluzione in questo caso, per identificare altri noti personaggi dell’epoca, sulla cresta dell’onda una decina di anni fa.

Nella prima parte della prima parte (cioè la prima metà di “Loro 1”, che è appunto la prima parte del film diviso in due) Sorrentino si concentra sul mondo che ruota intorno a Berlusconi, a partire dal mitico Giampi Tarantini (attore Riccardo Scamarcio) e dalla sua compagna (nel film dipinta in stile abbastanza zoccoleggiante) i quali, fieri delle loro adenoidi come direbbe la Gialappa’s, organizzano feste a gogo, a Roma e nella villa in Sardegna presa in affitto proprio di fronte a quella di Berlusconi, e riempita di ragazze, per accattivarsi la simpatia di lui; e poi una cerchia infernale composta da donne abbastanza ignoranti ma disposte a tutto pur di fare carriera, e uomini arrivisti e incapaci. In questo panorama così squallido si staglia e, per contrapposizione, giganteggia la figura di Berlusconi, personaggio dal fare maramaldeggiante, ambiguo ma terribilmente affascinante, per tutti tranne che per sua moglie. Le anime dannate ruotano intorno a lui in attesa di essere viste, notate, salvate. I party selvaggi in Sardegna, le feste smodate piene di droga, alcol e sesso sono solo un grido di auto-affermazione di “Loro”, un rutto di sollievo generale, in attesa di essere visti da “Lui”.

Nella seconda parte della prima parte, entra ancora maggiormente in scena Berlusconi. Ma tra i primi folli personaggi e lui, esiste pure la moglie Veronica (la brava e bella Elena Sofia Ricci), donna perennemente in crisi (e ci credo, con quel marito costantemente circondato da decine di giovani fanciulle spesso quasi nude, anzi basterebbe dire: con quel marito, a prescindere, tout court), triste, avvilita, in cerca di compensazioni culturali e filosofeggianti, e continuamente irretita da Silvione che con il suo modo di fare cerca di sorprenderla e riconquistarla in ogni modo.

Il lusso e la decadenza de “La grande bellezza” tornano qui in scena con un tripudio di corpi nudi, di piaceri mondani e di una società senza morale. In questo contesto Berlusconi se la ride, pensando a cosa sarebbe l’Italia senza di lui sulla scena politica (e imprenditoriale, e sportiva, e sociale, e di costume). Tra una canzone napoletana eseguita dal fido Mariano e una barzelletta idiota, lui imperversa leggiadro e senza alcun rimorso.

Toni Servillo come sempre domina la scena con la sua bravura, rappresentando in maniera più che credibile una delle figura più ambigue della storia d’Italia, che comunque rimane un essere meno peggio di molti di “Loro”.

 

Recensione “Molly’s Game”

La storia vera, raccontata in flash back, di Molly Bloom, solo omonima del personaggio dell’Ulisse di Joyce, per la prima regia dello sceneggiatore Aaron Sorkin. Di conseguenza, c’era da aspettarsi: bellissima la scrittura, di ferro, e poi formidabile Jessica Chastain nella parte di Molly.

Il film si basa sulle memorie pubblicate nel libro della stessa, vera Molly Bloom.

“Molly’s Game” racconta la storia di una ex campionessa di sci che, messa KO da un gravissimo infortunio subito in una gara pre-olimpica, decide di non deprimersi pensando alla carriera agonistica buttata via ma, molto disinvoltamente e fiera delle sue adenoidi, si ricicla come organizzatrice di bische milionarie per amanti del poker fino a diventare la regina del poker clandestino americano per vip e mafiosi russi, dimostrando grandi capacità manageriali e gran pelo sullo stomaco nel gestire uomini di tutti i tipi e cifre a tanti zeri.

Originaria del Colorado, dopo l’incidente sugli sci si trasferisce a Los Angeles dove, dopo una breve fase di umili lavoretti per mantenersi, spicca il grande salto di business ed inizia la sua attività semi-clandestina, che lei conduce in suite di hotel extra lusso. Nel suo portafoglio clienti ha prevalentemente star di Hollywood, produttori cinematografici, uomini d’affari. In una seconda fase della sua attività si trasferisce a New York, addirittura nel mitico Plaza hotel, e qui al solito livello di clientela si aggiunge anche un po’ di mafia russa, a sua insaputa, direbbero alcuni dei nostri politici. Non tutto va liscio. Al di là delle regole del giuoco, la cosa da sapere è che in America questa attività è lecita quando campa di mance e simili (per esempio, il bar), non lo è più se il banco trattiene una percentuale su ogni piatto della partita. Molly segue le regole fino a che le cifre in giuoco glielo consentono, ma siccome il banco ha anche la responsabilità di garantire le perdite se qualcuno non riesce e pagare, quando queste ultime ingigantiscono, per lei iniziano i guai.

Tra vari flash-back e salti temporali e spaziali, arriviamo all’arresto della protagonista ad opera dell’ FBI e al processo, ecco allora anche la convincente interpretazione dell’avvocato Charlie Jaffey (attore Idris Elba), e poi quella del papà di Molly (Kevin Costner, qui in veste di intellettuale), che spiega alcune cose del passato della figlia.

L’escalation professionale e criminale della protagonista viene presentato, nel film e anche in realtà, in sede di processo, come qualcosa che conserva una sua personale concezione di integrità. Infatti l’idea di Molly e dell’avvocato è di dichiarare il reato ma sottintendendo sempre una forma di moralità, come se Molly facesse di tutto per difendere una patente di coerenza pur dentro il destino che si è scelta. Vedi la sua ostinazione nel non fare i nomi dei partecipanti alle sue partite di poker (all’epoca, una decina di anni fa, quando il vero fatto di cronaca venne fuori, si parlò del coinvolgimento, tra gli altri vip, di star del calibro di Affleck e Di Caprio).

In conclusione, un cinema fatto prevalentemente di scrittura, quindi un film raro in questa epoca di dominio di effetti speciali ed altre scorciatoie/trappole per lo spettatore.

Come a teatro, un grande testo affidato a grandi interpreti e una regia che segue da par suo il copione, ovvero la scenaggiatura, in questo caso ovviamente, visto che regista e sceneggiatore sono la stessa persona….

Recensione “Contromano”

La nostra amica, inviata speciale e critica cinematografica Manuela ha visto per noi questo film. E qui ce lo recensisce.

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Antonio Albanese, come Corrado Guzzanti, si distingue dalla maggior parte dei comici perché é un genio. Soprattutto nel creare quei personaggi eccessivi e surreali come maschere, che però hanno dentro tanto di quella verità ( il Ministro della Paura…) da obbligarci ad una autocritica tutt’altro che comica.
Nelle regie non sembra però avere la medesima mano felice. Cosi’ avviene in “Contromano”.
La storia é gentile e garbata, perché nonostante il personaggio interpretato da Albanese esibisca ogni tanto un piglio un po’ leghista, in fondo é una persona buona e generosa.
E lo dimostra con la manifestazione e poi la realizzazione di un progetto che, come dice lui stesso, dovrebbe coinvolgerci tutti: riportare uno ad uno, con le nostre auto, tutti gli emigrati in Africa. Cosa che a lui riesce di fare, alla fine, con un po’ di difficoltà e di accadimenti che gli remano contro, riaccompagnando in Senegal l’emigrato che gli fa una concorrenza spietata vendendo calze di “filo di Svezia” a quattro soldi, proprio sulla porta del suo blasonatissimo negozio di intimo nel centro di Milano.
È nella descrizione del rientro in Africa che la sceneggiatura vacilla un po’. Qualche lungaggine di troppo, qualche episodio forzato, qualche personaggio tirato per i capelli.
La conclusione comunque (e non dirò di più per non rovinare il finale a chi lo vedrà) é sorprendente, ma non moraleggiante. Un atteggiamento che in Albanese sarebbe fuori luogo, e che nello scrivere un nuovo capitolo per la vita del suo personaggio, ci offre delle indicazioni non ovvie e che non puzzano di sacrestia, ma ci restituiscono la generosità di una persona che la solitudine, nonostante tutto, non ha inasprito.
Nel complesso un film godibile e amabile come il suo protagonista- regista, per passare due ore serene.

Recensione “Tonya”

L’infanzia disagiata e poi la maturita’ agonistica della pattinatrice Tonya Harding che, dopo il triplo salto mortale on ice, scivola come mandante dell’aggressione alla rivale: perde la carriera. Più che un film sportivo, la cronaca di un’America anni ’80 trash e amorale, dove l’autore ha ben documentato i fatti. Brava Margot Robbie, ma insuperabile la mammina Allison Janney, Oscar come migliore attrice non protagonista.
Non è  il solito film sul campione sportivo. Non è tennis, come da recente cinematografia ma il meno raccontato, al cinema, pattinaggio artistico. “Tonya” è un film biografico diretto da Craig Gillespie, in cui l’attrice Margot Robbie veste i panni del personaggio molto controverso, la pattinatrice Tonya Harding, eccellente atleta poi finita nella spirale di uno scandalo, quando viene accusata insieme all’ex marito dell’aggressione alla rivale Nancy Kerrigan, costretta poi a ritirarsi dalla competizione. La pellicola ci trascina quindi in un viaggio alla scoperta di Tonya, da quando era solo una bambina di quattro anni con talento, fino ai fatti di cronaca che hanno devastato la sua carriera.
All’inizio il regista comunica allo spettatore che il film si basa su interviste “totalmente vere, totalmente contraddittorie, prive di ironia”. Anche se di ironia, forse involontaria, ne viene fuori, eccome, da queste interviste.
Tonya, come detto, è Tonya Harding, figlia di bianchi poveri e cafoni d’America, sin da bambina obbligata più che avviata al pattinaggio dalla ferocissima madre. Fu la prima pattinatrice ad esibirsi e riuscire nel famigerato triple axe, la prima ad insultare i giudici di gara se non le riconoscevano il giusto merito nelle loro votazioni, e ad insultare le avversarie a prescindere. L’accusa del fatto di cronaca che segnera’ la sua vita è  quella di avere organizzato l’aggressione con relativa spaccata di rotula alla rivale Nancy Karrigan, per azzopparla alla vigilia delle Olimpiadi invernali di Lillehammer 1994.
Il rischio di film come “Tonya”, in cui si adotta il punto di vista del “cattivo” per raccontare la sua storia e gli eventi in cui è coinvolto, è di immedesimarsi troppo con il personaggio e finire col cedere all’istinto di non crederlo colpevole, o comunque di giustificarlo troppo, solo perchè ci siamo sentiti coinvolti nella sua storia; ma non è il caso di questo film. I protagonisti sono politicamente scorretti, imprecano, si picchiano e le bugie che raccontano anche a loro stessi vengono smascherate dalle immagini. Pur provando compassione per lei in certi tratti della storia, non ci sono dubbi sul coinvolgimento di Tonya nella triste vicenda, nè delle vere scusanti per quel che ha fatto, anche se la narrazione si preoccupa di mostrarci il suo difficile passato, il fatto che fosse vittima di persone che forse non avevano di lei la giusta considerazione. “Tonya”, alla fine, pur non essendo un capolavoro di cinema, si dimostra un prodotto interessante, facile da seguire e gustare. È la storia di una donna che ha commesso degli sbagli e che, a causa di questi sbagli, è stata severamente punita.
Ottima l’interpretazione dell’attrice Margot Robbie, davvero credibile nella interpretazione di questa donna complicata, e in questo film quasi irriconoscibile se raffrontata con la sofisticata donna di Leo Di Caprio in “The wolf of Wall Street”. La mamma despota come detto è Allison Janney, bravissima nel recitare la parte di una donna esigente e scostante, un personaggio detestabile dai modi spicci e poco ortodossi (eufemismo). Il marito di Tonya è l’attore Sebastian Stan, il cretino che fa minacce telefoniche credendosi quasi uomo FBI è Paul Walter Houser.

Recensione “Un sogno chiamato Florida”

Anche l’America adesso ha il suo neorealismo, pur senza avere De Sica o Rossellini.

Foto di gruppo di tre ragazzini alla periferia di Orlando, in Florida, in un intreccio continuo tra realtà e immaginazione, tra la vita quotidiana “reale” e quella che si vorrebbe vivere. Il tutto a due passi dal mondo incantato di DisneyWorld, dove vive questa umanità invisibile, dimenticata, senza tetto né legge.  È il mondo di “Un sogno chiamato Florida” di Sean Baker, regista più indie che mai, autore di questo film particolarissimo. Dove un universo di adulti e di bambini vive ai margini del parco divertimenti più grande del mondo. Poesia ed emozioni in un cinema di assoluta spontaneità e di umane illusioni che pare costruito dal vero.

Il mega-parco DisneyWorld è rigurgitante di famiglie e turisti. Poco distante, alla periferia del nulla, separato da una vegetazione incolta e da un progetto edilizio andato a male, sorge il Magic Castel Hotel, dai colori pastello tipici del quartiere Art Deco’ di Miami, a metà strada tra un albergo di terzo ordine e un residence per inquilini di passaggio che a stento riescono a pagare l’affitto. Lo gestisce in modo umano il manager/portiere/capo condomino Bobby (l’attore Willem Dafoe) che deve giocoforza avere a che fare quotidinamente con una umanità varia e molto problematica. In questa specie di condominio di case di ringhiera, diremmo se fossimo a Milano, si svolge la vita molto al limite di Halley, come il nome della cometa, e come la cometa appare luminosissima per brevi momenti per poi scompare nel buio della propria anima (strepitosa l’attrice Bria Vinaite): capelli verdi, un po’ “scunchiuruta” direbbero in Sicilia (sgangherata), molto tatuata. Giovane donna ribelle senza prospettiva. Ragazza madre con una figlia di sei anni, Moonee, la quale passa le giornate facendo monellerie e procurandosi guai con i suoi amichetti, facce da schiaffi e impertinenti come lei. Le vite di questi tre bambini continuano ad essere raccontate nel film, mentre la mamma di Mooney, in presenza o meno della figlia, continua a mettersi in altri guai. A volte per necessità (esempio, per racimolare soldi per pagare l’affitto), a volte per regalare alla figlia momenti di pseudo felicità (esempio, quando la porta ad abbuffarsi in ristoranti di lusso o almeno in decorosi diners), a volte per puro gusto nel cacciarsi nei guai. Alla voce “per necessità” rientra pure il fatto che Halley per sbarcare il lunario e pagare l’affitto al paziente Bobby, riceve in casa qualche uomo, magari con la bambina in casa e tristemente nascosta nella vasca da bagno. Cosa che non sfugge ai soliti vicini pettegoli che denunciano lo strano andirivieni di estranei fino a che non si presentano poliziotti e assistenti sociali con l’obiettivo di strappare Moonee alla madre e darla in affidamento. E qui comincia la parte piu’ drammatica del film ed il finale che si prepara è un altro momento lirico ed intensissimo del racconto.

La scena finale del film è stata girata a Disneyworld, con un iPhone, all’insaputa della direzione del parco.

Film in bilico tra due dimensioni, il vero e il falso, l’autentico e il contraffatto, il reale e il desiderato. Da una parte il Magic Castle Hotel con i suoi colori vivaci ma con il silenzio e la tristezza del cuore di chi ci vive, dall’altra DisneyWorld con la gioia, i rumori e le grida dei bambibi e dei turisti visitatori. In mezzo l’esistenza allegramente tribolata di Halley. Bellissima la fotografia e i colori. E poi gli attori, con Willem Dafoe giustamente candidato allo Oscar per il suo Bobby, che deve fare esercizio di umanità a piene mani per tenere a bada e gestire la povertà materiale e culturale diffusa di un quotidiano quasi fatalistico; e poi la stralunata Halley / Bria Vinaite e con la piccola Mooney, impunite e meravigliose icone di un film da vedere e ricordare.

 

Recensione “Un amore sopra le righe”

Dobbiamo dire che a questo blog capita ogni anno di essere colpito positivamente da almeno un film, magari indipendente, fuori dai canonici circuiti di gradimento quasi obbligati, cioé da un film che non stia in quel gruppetto di film oggettivamente ottimi (pur sapendo bene che il gusto nell’arte è personale, quindi soggettivo), a volte capolavori, che ogni stagione porta con sé. Bene, questo film è uno di questi. Diversi sono i film che vengono in mente assistendo a questa storia, ma é impossibile non pensare a “La versione di Barney”, romanzo di Mordecai Richler, e poi film con Paul Giamatti. Impossibile non accostare la Miriam del grande perduto amore di Barney, alla Sarah (attrice Doria Tillier), moglie di Victor Adelman (interpretato dallo stesso regista Nicolas Bedos): qui musa e scrittore di successo, insieme per 45 anni. Storia d’amore e di libri ambientata in Francia nell’epoca Mitterand (e altri Presidenti), scritta, diretta e recitata da Nicolas Bedos, all’esordio alla regia. Quasi un Woody Allen in trasferta a Parigi: famiglia colta e borghese, moglie e amanti, lo psicanalista, amore e odio di coppia. Una storia d’amore di quasi mezzo secolo si lascia alle spalle mille fatti, sfumature, insofferenze, gioie. Tutto questo è raccontato nel film.

“Un amore sopra le righe” è una lunga avventura amorosa carica di vibrazioni, emozioni e contrasti. A raccontare la storia di questa coppia ad un giornalista, subito dopo la morte di Victor, è proprio Sarah, in vena di rivelazioni e nostalgie: partendo in flashback dal loro primo incontro nel 1971, lei studentessa d’origini modeste, lui di famiglia alto locata e un po’ con la puzza sotto il naso, e attraversando quasi mezzo secolo di vita francese, turbolenze, tradimenti e passioni. La politica e la società francesi stanno sullo sfondo, con le epoche di Giscard D’Estaing, Mitterrand, Chirac a fare da contraltare socio-politico alla vicenda di sentimenti privati della coppia lungo i decenni che si susseguono. C’è l’innamoramento degli anni ’70, gioiosi e pieni di entusiamsmo, con l’impegno politico dei protagonisti che si inserisce nella loro passione privata. Poi l’edonismo (Reganiano?) degli anni ’80, con il benessere economico e il premio letterario conquistato da Victor. I tradimenti di lui sono una costante del bambinone capriccioso e viziato che ancora è, donnaiolo e dotato di super ego, in realtà persona fragile. Poi gli anni ’90 con fasi di separazione alternate a ritorni di fiamma, e poi si va verso l’epilogo.

Nella prima parte della storia, Sarah è, o appare, un po’ succube del compagno, spaventata che lui possa tradirla, timore non del tutto infondato come abbiamo visto, e terrorizzata al pensiero che lui possa lasciarla. In questa fase del film si assiste alla parte piu’ passionale del loro amore, vissuto in stile bohemien in un appartamentino nel centro di Parigi, durante gli anni delle barricate in strada e le manifestazioni di piazza in Francia negli anni post ’68. Quando la fama, la fortuna letteraria di lui, la ricchezza e una casa lussuosa prendono il sopravvento sull’originale ma molto piu’ romantico anonimato di coppia, questi eccessi cambiano la vita della coppia. Specie quella di Sarah, diventata tanto borghese da far imbestialire il suo ancora anticonformista compagno. E lei, sebbene incinta, presa anche da varie insicurezze e dalla gelosia per le continue scappatelle di lui, per ritrovare tracce di sicurezza si mette a sniffare come un aspirapolvere, poi si rimette in sesto ma qui comincia un’altra storia, sempre nel segno del loro amore irreversibile e sempre nei loro ruoli di ispiratrice e artista; ma adesso le situazioni si invertono, è lui a soffrire di gelosia quando è lei a guardarsi intorno, è lui a diventare insicuro e depresso per l’attenuarsi di successo con pubblico e critica letteraria. Fino all’inevitabile fase del tramonto delle loro vite, con il malinconico appannamento mentale di lui, colpito dall’alzheimer in un epilogo tenero e crudele, altro forte richiamo a “La versione di Barney”.

Abbiamo detto prima che la sceneggiatura è dello stesso regista Nicolas Bedos, in realtà la storia è stata scritta dalla coppia Bedos – Tillier, i quali oltre ad essere gli ottimi protagonisti del film sono anche compagni nella vita. Come se realtà e finzione riuscissero a manifestarsi e fondersi attraverso l’esperienza cinematografica, mettendo in scena tra pubblico e privato una lunga storia di coppia. La storia dei signori Adelman, per citare il titolo originale, è una torrenziale sequenza di riti di passaggio nell’ultimo quarto del secolo scorso, raccontati con una sincerità che fa emergere la fragilità dei personaggi, la loro lotta quotidiana con il talento, con la paura di averne meno del partner. Specie per Sarah, costretta a sacrificare il suo, per un capriccioso marito che forse non ha neanche il talento che gli si riconosceva ad inizio carriera…..